Donne rimaste indietro: un’esperienza, la mia

Mentre accadeva non hai detto nulla.
Del resto da quando sei entrata, non hai detto nulla.
Da quando hai varcato una soglia da ragazzina inconsapevole e incosciente ad adesso che sei in questa stanza buia, sono passati pochi minuti ma tra la te di adesso e quella che ha suonato quel campanello c’è un abisso.
Un abisso di non comprensione, di paura, di incredulità.
Un abisso pieno dei “no” che ti sono morti dentro appena hai capito che lì dentro, in quel momento, quelle due lettere non significavano altro che “enne” e “o”.
Ci avresti potuto riempire la stanza di quei no e non sarebbe cambiato nulla, se non un sorriso più soddisfatto sul viso che da allora hai odiato con tutta te stessa.
Non hai detto nulla.
Non hai avuto la forza di lottare: da subito ti è parso evidente che sarebbe stato inutile e temevi che facendo anche una sola azione avresti potuto rendere reale quello che senza dubbio era un incubo.
Perché queste cose non accadono alle ragazzine brave, a quelle che si vestono normalmente, a quelle ingenue, grassottelle, non belle, non speciali. Quindi non stava capitando a te. Non stava accadendo, semplicemente.
Hai rischiato di spezzarti, di schiantarti, quando hai capito che no, era vero.
Ma eri così vinta, delusa, impaurita, che non hai detto una parola.
E ti sei spezzata davvero quando hai capito che davanti avevi qualcosa che non potevi controllare e incasellare nelle tue pagine a quadretti.
Quando istintivamente hai visto le tue vie di fuga e ti sono state negate, brutalmente, lentamente, a farti comprendere bene che lì dentro c’erano altre regole e tu non eri neanche una pedina, stavi per diventare il tabellone di un gioco sconosciuto e bastardo.
Una tapparella che si abbassa, resta a metà a farti vedere che la porta è chiusa a chiave e la chiave è in una tasca a cui, anche potendo, non vorresti mai arrivare; a farti vedere che il telefono è staccato. Poi, il buio.
Quello che è accaduto, in quel buio, non lo sai.
Non c’eri, eri altrove. In un mare di assordanti no.
Quando provi a farne uscire uno una mano te lo vieta. Non lo rifarai più.
Quello che sai è quello che non è accaduto: lì dentro hai perso il sonno, la tranquillità, la fiducia nel genere umano, l’autostima, la dignità. Ma non quel pezzetto di pelle inutile che invece sembra chissà che importanza possa avere. Non ce l’ha, ma ancora non lo sai.
Ti senti grata, perché lo riporti a casa.
Ti sembra una cosa fondamentale, perché nell’immediatezza sai cosa hai ancora, non hai ancora idea di cosa e quanto hai perso.
Non hai detto ancora una parola, non hai ricordi di averne dette neanche dopo, quando ti sei rivestita e sei andata via.
Vinta, completamente. Un cuore che batte ma tu sei morta lì.
Ti sei detta che non era successo nulla che tu non potessi dimenticare: eri viva, non avevi neanche un graffio e avevi perfino il tuo preziosissimo pezzetto di pelle.
Avresti quasi voluto ringraziarli, per assurdo. Potevano toglierti di più, non l’hanno fatto. Che bravi.
Il giorno dopo un imperativo telefonico ti obbliga di nuovo in quella stanza. Tu sei vinta, non credi di poter dire di no. Hai creato un precedente, ti sei resa oltretutto anche ricattabile: sì sa che se si viene a sapere la puttana sarai tu. E tu hai ancora un’età in cui a certe cose si dà importanza. Un’età in cui non credi di poter raccontare questa cosa a mamma e papà, perché ti vergogni, perché li senti lontani, perché sei nel periodo in cui non sei più la loro bambina ma non sei neanche la donna che vorresti diventare. Sei una nube confusa.
Stavolta sei vinta: a urlare non ci provi nemmeno, continui a nuotare nel mare dei “no”.
Stavolta sei vinta: la serranda può rimanere su così che tu possa perdere anche la dignità dello sguardo, oltre a quella del tatto.
Stavolta sei vinta: la porta rimane aperta, tu non scapperai. Lo sai tu e lo sanno loro, lo sa soprattutto lui, che ti guarda fisso e ti dice con gli occhi e con la voce che sei sua. Ha ragione, sei vinta, morta, schiantata, e soprattutto sei sua.
Lo sarai per una settimana ancora, concretamente sua.
Fino a quando, un pomeriggio caldo di fine agosto, il mare dei “no” strariperà in un’onda che ti spingerà fino alla porta che fa da confine alla tua libertà.
Lui l’ha visto dagli occhi, il cambiamento, e arriva prima di te.
Da allora lui lo sa che non sei più vinta e sa che servirà violenza. La usa.
Il mare dei no esce in lacrime calde, le prime che versi.
Perché improvvisamente non sei più grata, sei terrorizzata. Hai paura che non finisca, hai paura di dover avere paura di uno squillo del telefono, hai paura che prima o poi non abbiano paura di lasciarti segni evidenti. Hai paura. Sei un grumo di paura, solo quello.
Lui lo sa, per questo l’altro ti tiene ferma. L’altro che improvvisamente si rende conto, come te, del fatto che mai più potrà considerarlo come un gioco e che improvvisamente piange, come te. Ma le sue mani continuano a stare lì, a tener ferme le tue. Le altre le registri, le senti, le rifiuti, le piangi.
Si è fermato in tempo.
Ha capito.
Ha capito che forse eri ancora vinta, ma di certo non più grata.
Ha capito che eri colma, di quei “no”; che li avresti fatti uscire, che lasciarti anche solo un segno in quel momento ti avrebbe portato a poter provare le tue parole.
Nessun segno, non puoi dimostrare nulla.
Lo sa lui, tu ancora non l’hai capito.
Ma quando finalmente ti lascia, sai che è finita. Che dentro quella porta non entrerai mai più. Che non lo permetterai mai più.
Quando scendi quelle scale, che hai pagato salatamente in lacrime, e ti chiudi sbattendo il portone dietro, sai che sei viva, basta.
Ancora non sai che non riuscirai a passare davanti a quel portone per anni, ancora non sai che quella finestra che vedrai tutte le mattine andando a scuola l’anno dopo sarà una pugnalata, ancora non sai che riuscirai perfino a respirare la stessa aria del ragazzo che piangeva con te.
Ma soprattutto ancora non sai che da allora in poi ti sentirai in colpa, che ti odierai, che avrai paura dei complimenti, ma soprattutto del tuo corpo.
Non sai che cercherai di negarlo a te e al resto del mondo, quel corpo.
Il fondo lo tocchi anni dopo, quando gli stessi gesti, fatti con e per amore, ti daranno l’esatta misura di quello che in quell’agosto hai perso.

Riconquistare la stima di te stessa è un percorso difficile, lo so oggi. Ventitre anni dopo. Ventitre anni di rabbia, paura, incredulità, delusione, sfiducia. Ventitre anni di negazione del sé.
Fino alla nascita del mio primo figlio, l’ultima cosa che vedevo prima di addormentarmi erano quegli occhi che avevano rivendicato la mia proprietà; da allora è stata la sua nascita.
Ed è allora che ho capito che con l’odio non avrei risolto niente, che la risposta non poteva stare lì, che quel sentimento così brutto, cupo, assoluto, non poteva farmi stare meglio.
Non dovevo odiare un altro, dovevo imparare ad amare me stessa.
Da allora ho iniziato un percorso: a volte mi fermo, torno anche indietro, ma so che la strada è quella. So che per me è tutto più difficile: fidarmi, amare, raccontare.
Quello che ho imparato è che in ogni cosa che ci capita c’è un proprio margine di responsabilità, che dobbiamo riconoscerci, attribuirci ed eventualmente perdonarci.
Lo devi vedere, analizzare, capire, quel margine, altrimenti rischi di odiare tutto il mondo oppure solo te stessa. Quel margine non ti qualifica, ti aiuta solo ad accettare che sia successo, e che sia successo a te. Non perché lo meritassi, ma perché, per tantissimi motivi, hai permesso accadesse.
Ventitre anni dopo sono una donna e non più la ragazzina che ero e che da quei pomeriggi di agosto non sono mai più stata. Negli anni ho raccontato, a pochi, a molti, non importa. Ho raccontato per sfogo, per rabbia, per amore, per bisogno, per comprensione, perché è una cosa che fa parte di me. Ho tenuto vivo il ricordo perché ricordare voleva dire definire e definire era circoscrivere. Di quello che è accaduto me ne sono fatta una colpa, un alibi, un motivo di rabbia, un motivo di odio. Ora è semplicemente lì, una cicatrice sbiadita, un pezzo di pelle più chiara a ricordarmi che sono una sopravvissuta.
Andare avanti è stato difficile per la bambina che ero, come per la donna che sono oggi.
Andare avanti è sempre difficile, per le persone che vivono traumi. Non puoi mentirti più: certe cose esistono. Esistono e le trovi negli occhi bassi, nelle guance che si imporporano, nelle lacrime di chi non riesce a parlarne.
Le trovo troppo spesso, ovunque. Ed è una cosa che mi auguravo di non leggere negli occhi di nessuno. Di quegli occhi conosco le profondità. Conosco la scelta delle parole. Conosco la seconda persona singolare, che ti permette di raccontarti mettendo un sottile ammortizzatore emozionale tra ciò che descrivi e ciò che hai vissuto. Le conosco quelle donne, le sento a pelle, le vedo, le soffro.

Ho pensato un’infinità di volte se scrivere questo post, se pubblicarlo, se firmarlo. Riflessioni interminabili sul pudore, sulle persone che amo che potevano rimanerne (e sicuramente lo saranno) turbate, sull’effetto che avrebbe potuto avere su chi mi conosce e sul suo modo di relazionarsi a me. Ho avuto, e ho ancora, paura della pietà, della compassione. Non è questo lo scopo di questo post.
Questo post è forse la cosa più difficile che abbia mai scritto. Non l’ho scritto per me, né per rendermi oggetto di qualcosa; l’ho scritto per la donna che mi ha detto “anche io”, l’ho scritto per chi ha paura di parlarne, per le donne che non riescono ad uscire dai confini del “tu sei mia”, fisico o verbale, e rimangono prigioniere di un evento o di un uomo che un giorno le ha fermate dentro quelle mura invisibili e pesanti. L’ho scritto per la tredicenne che ero e che voleva sentirsi dire che non era colpa sua e che ne sarebbe uscita, che se ne poteva parlare senza essere giudicate. L’ho scritto per la trentasettenne che sono e che sono diventata a fatica un passo alla volta.
Parlarne si può, e se anche solo un’altra donna, una sola, che un giorno si è smarrita nella prevaricazione verbale, fisica o sessuale di un uomo, si sentisse attraverso queste righe meno sola e vinta, sarebbe una cosa bellissima.
Ognuna deve affrontare i propri demoni da sola, ma questo non significa che debba farlo in solitudine.

Photo credits: http://letteradonna.it/75830/la-giornata-contro-la-violenza-sulle-donne/

Informazioni su la fra

Architetto per scelta, mamma a tempo pieno, scrittice per passione, blogger per divertimento, artista per vocazione, vivo felice e incasinata nella mia Tana (non più) Africana con due Patati, che adoro.

Un Commento

  1. Un abbraccio forte forte.
    Condividere un passato così doloroso in una giornata così importante per noi donne, non è da tutte.
    La tua forza è la tua speranza.

    • grazie mille cara, è stato un post difficile e impegnativo: l’ho scritto in sei mesi e ho avuto bisogno di sei mesi di coraggio per premere “invio” su “pubblica”.
      Ma ventitre anni fa io mi sentivo tremendamente sola e volevo non accedesse più a nessuna, sia a livello di causa che a livello di effetto. Il coraggio, allora, è venuto da sé.

  2. Valeria Pizzal

    Grazie Fra per tutta la forza ed il coraggio che emergono sempre dai tuoi post, oggi più che mai!

  3. MP

    C’est difficile écrire, très difficile….on marche ensemble avec l’espoire de grandir aujourd’hui les hommes de demain..je suis fier d’avoir à côté de moi une femme comme toi…..merci mon Amour….

  4. gab

    ciao…non so cosa dire…se non grazie, un grazie speciale.
    Così come è speciale e silenzioso il mio abbraccio

  5. Che esperienza orribile. Un abbraccio.

    • Sai qual è la cosa più orribile, ventitre anni dopo? specchiarsi negli occhi e nelle parole di altre donne. Quello ti massacra: il tuo dolore lo affronti, quello di altre donne lo decuplica. 😦

  6. Libellulina Sono Io

    “Ognuna deve affrontare i propri demoni da sola, ma questo non significa che debba farlo in solitudine.” e tu sei una gran donna ❤ ❤

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